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Cernobyl: dal disastro ad oggi

Ultimo Aggiornamento: 16/05/2010 13:15
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16/05/2010 13:15
 
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CERNOBYL: DAL DISASTRO AD OGGI

Il 26 aprile 1986 un grave incidente colpì il quarto reattore della centrale nucleare di Cernobyl, in Ucraina – allora parte dell’Unione Sovietica. I tecnici della centrale avevano intenzione di testare se le turbine sarebbero state in grado di fornire l’energia necessaria a mantenere operative le pompe dell’impianto di raffreddamento del reattore, nel caso di una perdita di energia e senza ricorrere al generatore diesel di emergenza. Qualcosa andò storto. Appena incominciò il test il reattore andò fuori controllo. I sistemi di sicurezza erano stati disattivati. Si verificò una violenta esplosione che fece saltare la struttura di 1000 tonnellate che sigillava l’edificio del reattore. Le barre di uranio si fusero quando la temperatura incominciò a superare i 2000 °C. Anche la copertura in grafite del reattore prese fuoco. Il rogo andò avanti per nove giorni, rilasciando in atmosfera cento volte tanto la radioattività sprigionata dalle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki.
Le conseguenze dell’incidente di Cernobyl
La maggior parte della radiazione venne rilasciata nei primi 10 giorni, contaminando milioni di persone e una vasta area. Nei giorni successivi all’incidente, a causa di perturbazioni meteo, la contaminazione arrivò fino in Europa centrale, Germania, Francia, Italia, Grecia, Scandinavia, e Regno Unito. In Bielorussia, Russia e Ucraina furono contaminati tra i 125mila e 146mila chilometri quadrati di territori a livelli tali da richiedere l’evacuazione della popolazione.
Gli impatti più seri nel lungo periodo si devono al Cesio-137, i cui livelli di contaminazione si riducono significativamente solo dopo 100 anni. Livelli di radioattività significativi da Cesio-137 possono ancora essere riscontrati in Scozia e in Grecia. Oltre a questo, anche gli impatti sulla popolazione locale continuano a persistere per decenni ed oggi, a 24 anni di distanza, si continuano ad avere nuove vittime. Uno studio di scienziati dell’Accademia delle Scienze ucraina e bielorussa, pubblicato da Greenpeace nel 2006 (in coincidenza del 20° anniversario del disastro), stima che nel lungo periodo si potranno raggiungere 100 mila vittime1.
La situazione attuale a oltre 20 anni dall’incidente
I segnali di miglioramento sono pochi. La popolazione sta incominciando a tornare ad abitare nei villaggi abbandonati, nonostante si tratti di aree ancora a rischio. Nel 2006 Greenpeace ha raccolto campioni nel villaggio di Bober, fuori dalla zona di esclusione. Le analisi hanno rivelato che i livelli di contaminazione erano 20 volte superiori ai limiti fissati dall’Unione Europea per i rifiuti radioattivi pericolosi. Un altro problema consiste nel fatto che, mano a mano che il tempo passa, molte delle persone che rischiarono la vita per spegnere l’incendio e molte delle vittime colpite ricevono sempre meno cure e assistenza sociale.
Le stime sulla mortalità derivante dall’incidente di Cernobyl variano a seconda dei parametri presi in esame. La più recente ricerca epidemiologica1, pubblicata in collaborazione con l’Accademia Russa delle Scienze, mostra che gli studi precedenti erano stati troppo cauti. Per esempio, l’AIEA nel 2005 parla di soli quattromila morti, ma le statistiche più recenti stimano invece in duecentomila le morti dovute all’incidente di Cernobyl, tra il ’90 e il 2004 prendendo in esame solo Ucraina, Bielorussia e Russia.
Quattro gruppi di popolazione sono stati maggiormente colpiti dalle maggiori ripercussioni sanitarie: i lavoratori impiegati nella bonifica, i cosiddetti ‘liquidatori’, inclusi i militari che hanno ostruito il guscio protettivo del reattore; gli evacuati dalle aree fortemente contaminate nel raggio di 30 chilometri dalla centrale, i residenti delle aree meno contaminate e I bambini nati da famiglie appartenenti a questi tre gruppi.2
La seguente tabella indica i risultati di diversi studi effettuati, e mostra quanto sia ampio il margine di incertezza sull’impatto reale del disastro e come le statistiche ufficiali dell’industria nucleare abbiano sottostimato sia l’impatto locale che quello internazionale dell’incidente.

Cosa sta succedendo ora presso il sito dell’incidente?
Esistono piani per trasformare Cernobyl in un sito temporaneo per lo stoccaggio di scorie nucleari. L’industria nucleare si riferisce a questo sito come “zona di sacrificio” e intende scaricare rifiuti nucleari altamente pericolosi dove la gente continua a vivere e a subire gli effetti della contaminazione. Otto mesi dopo l’incidente, nel novembre 1986, un “sarcofago” di cemento armato di oltre 400mila metri cubi venne costruito attorno al reattore collassato. La sua vita era stimata tra 20-30 anni, ma il rapido deterioramento potrebbe farlo precipitare sul reattore, producendo una seconda fuga di radioattività nell’ambiente. Attualmente si prevede quindi la realizzazione di un nuovo sarcofago per un costo di circa 1,2 miliardi di dollari.
Ci sono stati altri incidenti nucleari dopo Cernobyl?
Incidenti nucleari gravi continuano a capitare ancora ai giorni nostri, sebbene per fortuna non ne sono successi della stessa entità di Cernobyl. Per esempio nel 1999 una reazione nucleare incontrollata ebbe luogo nell’impianto di produzione del combustibile nucleare di Tokai-Mura, in Giappone. Morirono due lavoratori e la radiazione si sprigionò nell’area circostante. Nel 2006 si sfiorò l’incidente nucleare presso un reattore a Forsmark, in Svezia, quando i generatori di back-up si incepparono, lasciando la centrale senza elettricità. Nel 2007 un terremoto in Giappone ha costretto a bloccare sette reattori nella centrale di Kashiwazaki-Kariwa per un anno, con forti problemi per la città di Tokio. Anche in Svezia, in seguito a problemi di sicurezza, furono fermati quattro reattori nel 2006, e venne perso il 20% della produzione elettrica del Paese.
I nuovi reattori sono più sicuri?
I principali reattori, considerati di ultima generazione, sono l’AP1000 della Westinghouse e l’EPR della francese AREVA. Il primo è ancora in fase autorizzativa, mentre per l’EPR ci sono due cantieri in Europa, uno in Finlandia a Olkiluoto e uno in Francia a Flamaville. Reattori di questo tipo sono dotati di nuovi sistemi di sicurezza “passivi”, tuttavia diversi problemi sono stati riscontrati in fase di costruzione sia a Flamaville che a Olkiluoto. A tre anno dall’inizio dei lavori a Olkiluoto, l’Autorità finlandese per la Sicurezza Nucleare (STUK) ha segnalato già oltre 2.100 non conformità, molte delle quali non risultano essere state corrette, che possono aumentare seriamente il rischio di un incidente grave.
Più recentemente, l’Agenzia Francese per la Sicurezza Nucleare ha scoperto che a Flamaville le fondamenta di cemento armato del reattore erano state gettate in modo scorretto, che il basamento del reattore aveva delle crepe e che un quarto circa di tutte e saldature erano difettose. In entrambi i casi, per cercare di ridurre i costi, erano stati dati subappalti dei lavori a società senza le competenze necessarie. Nel novembre del 2009 le autorità di sicurezza finlandese, francese e britannica, con un comunicato congiunto, hanno dichiarato le centrali nucleari EPR carenti nel sistema di sicurezza, in quanto il sistema di controllo di emergenza non risulta indipendente dal sistema di controllo ordinario.
Infine, secondo i documenti resi noti nel marzo 2010 dall’associazione francese “Sortir du nucleaire”, le centrali EPR potrebbero essere pericolose quanto quella di Cernobyl, perché sottoposte al rischio di analoghi incidenti.
Il nucleare è una soluzione al problema dei cambiamenti climatici?
Visto che il nucleare ha basse emissioni di gas serra (prodotti prevalentemente in fase di estrazione dell’Uranio), i fan dell’atomo cercano di presentare l’opzione nucleare come l’unica alternativa credibile e realistica ai combustibili fossili. In realtà il nucleare è una falsa soluzione al contenimento delle emissioni di gas serra. Nel mondo sono presenti 439 reattori che forniscono circa il 6,5% dell'energia primaria globale. Per raddoppiare il numero dei reattori occorrerebbe inaugurare una centrale nucleare ogni due settimane da qui al 2030. Un'ipotesi irrealizzabile, che permetterebbe di ridurre le emissioni globali di gas serra di appena il 5%. Troppo poco, troppo in ritardo e con costi esorbitanti oltre i 2.000 miliardi di euro. Inoltre, l’Uranio estraibile a costi valutabili è meno di 3,5 milioni di tonnellate e, agli attuali livelli di consumo, basterà per altri 50 anni appena.
Greenpeace ha presentato nel 2008 il Rapporto “Energy [R]evolution” in cui si mostra come il crescente fabbisogno mondiale di energia può essere soddisfatto da fonti rinnovabili e misure di efficienza energetica, facendo a meno del nucleare al 2030. Grazie a misure di efficienza energetica, sarebbe possibile stabilizzare i consumi mondiali di energia ai livelli attuali. In questo modo le rinnovabili potranno coprire circa la metà del fabbisogno energetico mondiale al 2050. (www.greenpeace.it/energyrevolution).
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